Relazione dott Adriana Salvia "Dinamiche relazionali in famiglie con soggetti disabili"
Ciascun individuo, ciascuno di noi, è imprescindibile dalla sua storia e da quella della famiglia in cui è nato, cresciuto e vissuto. La famiglia, cioè, è lo spazio relazionale primario, quello in cui sperimentiamo la difficile arte della coesistenza insieme alla sfida dell’autonomia che ci serve per diventare individui adulti definiti e centrati. Non è semplice l’equilibrio tra questi due poli ugualmente forti: l’appartenenza e l’indipendenza e tutti fatichiamo a trovarlo, per altro non tutti ci riusciamo. Qualunque sia la definizione che ci sentiamo di dare alla parola famiglia, qualunque sia la declinazione che scegliamo –allargata, monogenitoriale, classica, mista, multietnica ecc- non possiamo non riconoscere che quello che apprendiamo nelle nostre relazioni primarie (padre, madre, fratelli) ci forma nel bene e nel male per cui la famiglia può essere una risorsa preziosa, così come può costituire un limite o, nella maggioranza dei casi, essere entrambe le cose.
Dal punto di vista della psicologia sociale, la famiglia ha un suo ciclo vitale che è il risultato dei vissuti di coloro che la compongono: tutte le volte che nell’omeostasi familiare si verifica un cambiamento, percepito sia come negativo che come positivo, la famiglia deve ritrovare e ristabilire un nuovo equilibrio per poter continuare a mantenere il suo ruolo di contenitore affettivo sano. Il cambiamento, cioè, è sempre un elemento di criticità. Anche la nascita di un figlio è un evento critico in quanto sconvolge totalmente l’equilibrio preesistente e necessita di una riorganizzazione dei rapporti tra i membri della famiglia.
La nascita di un figlio portatore di una disabilità si configura come evento critico per eccellenza e rappresenta un elemento disadattante per qualsiasi famiglia, in quanto mette in evidenza gli stili di funzionamento familiare, le risorse chela famiglia è in grado di mobilitare, la sua adeguatezza o meno nello svolgimento dei compiti dello sviluppo del ciclo di vita e le modalità con le quali essa si rapporta con l’ambiente che la circonda.
In genere di fronte a questo evento, che molto spesso è del tutto inatteso, la famiglia è disorientata, spaventata, spesso angosciata, sopraffatta dall’apprensione, dalla rabbia o dal senso di colpa. L’annuncio della disabilità costituisce il momento a partire dal quale una nuova realtà familiare prende vita e niente potrà più essere come prima. Molti genitori ad anni di distanza ricordano questa prima fase come particolarmente angosciante, caratterizzata da un senso di impotenza e ribellione e da una profonda sensazione di solitudine. Tutto quello che avevano sognato e immaginato durante i mesi dell’attesa è capovolto e spesso questa situazione iniziale è un vero e proprio trauma dal quale ci si riprende col tempo e con una profonda elaborazione.
Alcuni studiosi hanno cercato di classificare le reazioni dei genitori alla nascita di un figlio disabile, dividendole in tre fasi principali, pur riconoscendo che non esiste affatto una regola generalizzata perché ciascuna situazione è unica e particolare. Inoltre il processo di passaggio da una fase all’altra non è strettamente sequenziale e molti genitori hanno invece sottolineato la ciclicità degli stati d’animo in rapporto ai diversi eventi di vita che coinvolgono la famiglia. Si ritiene tuttavia che le reazioni dei genitori di fronte alla nascita di un figlio problematico abbiano più o meno questo andamento temporale:
una prima fase di shock, rifiuto, dolore, depressione. È una fase in cui i genitori non riescono ancora ad avere una consapevolezza piena di quello che è accaduto. Cercano informazioni, spiegazioni, individuano responsabilità possibili, si chiudono in uno strano isolamento e difficilmente gestiscono insieme la situazione: normalmente ciascuno dei due è preso dal proprio dolore e dalla propria paura. È un momento molto difficile e delicato della vita di una coppia e di una famiglia, un momento in cui si corre il rischio di allontanarsi l’uno dall’altro. È un momento in cui la risposta dei sanitari e degli altri parenti è importantissima, perché un clima di accoglienza e di supporto favorisce moltissimo la transizione verso un atteggiamento meno pessimistico e catastrofico. Purtroppo dalle testimonianze di molti genitori capiamo che molto spesso in questi primi cruciali momenti non si riceve affatto il sostegno necessario, soprattutto da parte del personale medico, talvolta del tutto impreparato a fare fronte a questo evento.
Dopo questa prima fase di rifiuto, i genitori cominciano a fare i conti con la realtà e sperimentano sensi di colpa, vergogna, rabbia e imbarazzo. Soprattutto il senso di colpa è difficile da superare mentre la rabbia ha un andamento più ambivalente e si può nutrire nei confronti dei medici, del proprio partner, di se stessi, e persino di Dio e della vita che è stata tanto ingiusta. Alcune persone raccontano di aver cambiato totalmente il proprio carattere, di essere diventati aggressivi se erano miti, oppure passivi se viceversa erano più combattivi. Si deve però osservare che per lo più questi cambiamenti rientrano col tempo, quando cioè si passa alla fase della riorganizzazione, dell’accettazione e dell’adattamento, la fase in cui finalmente il bambino è sentito come figlio e non più come disabile e i genitori, la maggior parte di genitori, sperimentano quella forma di amore così particolare e profonda che caratterizzerà per sempre la relazione con questo figlio speciale.
“I bambini disabili nascono due volte: la prima li vede impreparati al mondo, la seconda dipende dall’amore e dall’intelligenza degli altri” così ci ricorda Giovanni Pontiggia nel suo bellissimo romanzo “Nati due volte” e ce lo ricorda dal suo punto di vista di genitore di un ragazzo disabile che ha vissuto ogni possibile gradazione di emozioni e sentimenti e ha conosciuto troppo spesso l’inadeguatezza della risposta degli “altri”, strutture sanitarie, scuola, società. È evidente, dunque che l’integrazione sociale delle persone disabili non può in alcun modo prescindere dal contesto familiare. La condizione di disabilità comporta la permanenza del figlio nel nucleo di origine, per cui l’azione dei genitori è fondamentale nell’assicurare uno sviluppo cognitivo e armonico della persona. Le reazioni, la forza e l’equilibrio della famiglia rappresentano una leva cruciale non solo per il futuro del figlio in difficoltà, ma anche per la protezione e il benessere del nucleo familiare e dei suoi componenti.
Chi ha un figlio “disabile”, per evidenti risvolti emotivi ed affettivi, è assai a rischio rispetto alla cosiddetta “usura emotiva”. Egli si trova a gestire una relazione particolarmente problematica all’interno della quale sperimenta una vasta ed articolata gamma di bisogni. Ha innanzitutto la necessità, in molti casi, di uscire dall’isolamento e di scrollarsi di dosso vissuti emotivi negativi composti da un misto di vergogna e senso di colpa. Ha bisogno di imparare a collaborare costruttivamente con gli operatori, se sono presenti, che si occupano di suo figlio, ha la necessità di compartecipare e condividere i propri stati emotivi, di confrontarsi con altri che vivono la stessa esperienza. Soprattutto, ha bisogno di riprendere in mano la propria vita, particolarmente quando questa, percepita come interamente caratterizzata dalla patologia del figlio, viene “sacrificata”, “immolata”, “dedicata” a lui.
È certamente possibile per un genitore distanziare la propria vita da quella del figlio, occuparsi dei propri sensi di colpa, aumentare la consapevolezza delle emozioni e dei comportamenti, diminuire il coinvolgimento emotivo, riappropriarsi del ruolo di “genitore e non altro”. È possibile anche ripensare alla propria condizione di marito o moglie all’interno di una relazione di coppia attraversata esclusivamente dalle esigenze del figlio in difficoltà, che spesso sottace conflitti latenti, ma non per questo meno devastanti, che andrebbero affrontati e risolti (negazione, depressione, desiderio di espiazione che esclude l’altro, frustrazione, colpevolizzazione reciproca, rabbia inespressa, limitazione della vita coniugale vissuta oltre il figlio, senso di solitudine, incapacità di sostenersi reciprocamente, rischio di simbiosi cronica).
Nel momento in cui il genitore sposta l’attenzione della vita del figlio alla propria, è in grado di osservare, analizzare meglio e modificare i propri vissuti emotivi. Così facendo sperimenta un netto miglioramento della qualità della propria vita che comporta anche un vantaggio per il figlio che si ritrova a relazionarsi con un genitore più sereno e costruttivo di fronte ai problemi.
Il ciclo di incontri che abbiamo avuto con l’associazione Dopo di Noi ha avuto come obiettivo appunto quello di stimolare una posizione attiva che vede il genitore artefice e costruttore di un nuovo benessere rispetto a quelle parti percepite come deficitarie.
La dimensione gruppale dell’associazione ha una funzione molto importante, in quanto un percorso di maggiore autonomia è possibile soprattutto creando anche gruppi di sostegno costituiti dai familiari stessi. La situazione di “handicap” deve essere stimolatrice della coesione e della reciprocità intrafamiliare ed extrafamiliare con maggiore apertura ai supporti esterni. I percorsi di gruppo si caratterizzano per la capacità di creare un clima di partecipazione, di condivisione e di socializzazione. Il contatto con problematiche simili alle proprie permette di rompere un isolamento, solitamente molto pesante. In gruppo può essere più facile riuscire a vedere in modo diverso le situazioni che si vivono. Si notano inoltre le fatiche, le difficoltà, gli insuccessi degli altri che hanno problemi simili e ci si rende conto di come sia difficile per tutti dare risposte e organizzarsi in modo efficace. Gradualmente cresce la curiosità nei confronti di cosa fanno, come pensano, come scelgono gli altri, cosa che spinge a confrontarsi e ad ascoltare con attenzione modi alternativi ai propri. Questo confronto costruttivo porta a mettere in pratica altre soluzioni non ancora adottate e a suggerirne di proprie.
Il gruppo si costituisce ben presto come punto di riferimento importante e può diventare anche un’occasione per allargare la sfera sociale, organizzando eventi comuni, dandosi una mano in momenti di criticità, frequentandosi al di là degli incontri previsti dal progetto. Infine in gruppo si possono intraprendere iniziative nei luoghi della politica sociale, per sensibilizzare la comunità e coinvolgere quanti hanno potere decisionale circa le risorse da mettere in campo per meglio affrontare le problematiche derivanti dalla condizione di disabilità.
Concludo con una nota personale: l’esperienza con i genitori dell’associazione “Dopo di noi” è stata per me un’importante occasione di crescita. Credo di aver imparato molto e di aver ricevuto anche di più e oggi i genitori e i ragazzi del Dopo di Noi sono degli amici cari dai quali torno sempre con gioia. Le nostre comunità hanno sempre di più bisogno di vicinanza e confronto, di solidarietà e partecipazione e favorendo l’associazionismo familiare si favorisce la vera integrazione e la sensibilizzazione dell’intera società civile. Associazioni come questa non aiutano soltanto le persone che devono affrontare il problema della disabilità ma aiutano tutti noi, che siamo colpiti da una forma di disabilità molto grave e molto diffusa: come le tre scimmiette troppo spesso non siamo capaci né di vedere, né di sentire, né di parlare.